giovedì 7 maggio 2015

Yakamoto Kotzuga - Usually nowhere (Recensione)

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Venezia: la città dei gondolieri, della Biennale di Arte Contemporanea, roccaforte del cinema e delle arti, è il luogo in cui un musicista elettronico di indubbio talento decide che i tempi siano maturi per uscire dalla cameretta, quel luogo sacro in cui la figura del musicista elettronico si era rifugiato per tanti anni. Forse ci si era fossilizzati troppo su quello che era successo in Inghilterra: si sa, ora le mete sono altre.

A dispetto del nome, il musicista in questione è, non ci si faccia ingannare dal monicker, Yakamoto Kotzuga, e l'album di cui vi parliamo è Usually nowhere, non un concept, non un disco di genere, ma un album di musica elettronica nel senso più ampio del termine.
Il musicista vive la medesima condizione di quelle persone che vedono la luce per la prima volta dopo tanti anni di oscurità: straniamento, spaesamento, voglia di sperimentare tutto quello che si tocca, senza catalogazioni di genere o seguire canali predefiniti. Questo spaesamento genera, appunto, straniamento profondo, ed è da qui che si può partire per analizzare Usually nowhere, dal titolo.

La musica qui contenuta è figlia del Surrealismo e immersa in una non-dimensione, il nessun luogo, forse la mente del musicista. Lasciare la propria accogliente casetta, come può essere quella dell'artwork, genera sempre risultati imprevisti, e così Yakamoto scopre che non ci sono più pareti pronte ad attenuare le sue ritmiche, quello che un tempo era l'astrazione intelligente studiata a tavolino con carta e penna prende una forma definita: il 4/4 techno-ish di Such a fragile flower ne è un chiaro esempio. La si può sentire come affonda sul terreno, quella cassa. Non c'è più esaltazione marinettiana della cerebralità, back to the basics. Il landscape ambient è l'ansia che il musicista si porta dietro, che lo accompagna nei primi passi fuori dalla sua dimora un tempo così sicura. La leggerezza dell'insieme è tutta italiana, raffinata, sopraffina. La formula elettronica italiana è quella che trasforma il vinaccio da osteria in un vino pregiato bevuto all'interno di un salone luccicante.

Questo luccichio, questo gusto tutto italiano, lo si ritrova chiaramente anche nel mid tempo di Hermit, in quella finissima passerella di pianoforte, alternata all'esplorazione cacofonica post-urbana in cui vive. Chi si aspettava un lavoro IDM troverà di gran gusto The awareness of being temporary, una riflessione sulla temporaneità e, quindi, anche su quella del ritmo, sulla sua scomposizione, il ritmo spezzato, convulso e attanagliato, appunto. Anche qui, come in tutti gli episodi del disco, c'è un continuo saliscendi di momenti convulsi e aperture rilassanti, maschile-femminile come nei temi di una forma sonata, c'è un alternarsi di tensione e distensione figlio del manuale del cinema. Qui c'è anche l'elemento acquatico e il breakbeat che vi galleggia sopra, e il rumore delle barche attraccate. D'altra parte, non dimentichiamoci che, anche se interiore, siamo pur sempre a Venezia.

Se I was dead è una passeggiata in mid tempo verso nuovi orizzonti e territori inesplorati, con la titletrack ci si trasferisce sui famosi lineamenti post-dubstep di cui parlano le schede tecniche del musicista, un groove cosparso dalla nebbia delle prime ore del mattino in cui anche il sampling trova una sua ragion d'essere. Cruel ripresenta il gusto italiano per le parti di piano e una ritmica affannosa (enfatizzata dalla resa sonora che ne aumenta la carica ansiogena), ma anche sudamericana, che fa venire voglia di ballare. C'è anche un po' dei The Chemical Brothers più danzerecci, seppure il landscape sia totalmente differente. The triumph si lascia travolgere da una elettronica distopica, una conclusione da colonna sonora per un film che non conosce happy ending.

Andando a ritroso, non si può non segnalare il gusto di ispirazione teutonica per la ritmica travolgente e secca, primordiale e martellante, che troviamo nel climax dell'ottima Night rider. E' un ritmo che, per antonomasia, nasce in Africa, ma che evidenzia la conoscenza di quello che succede in Nord Europa.

Quello di Yakamoto Kotzuga è un viaggio alla ricerca di quel posto che il musicista non ha ancora trovato, ma che è proprio quel valore aggiunto che gli permette di non essere mai banale, di non seguire forzatamente specifiche correnti, di essere in grado di colpire diversi target, quello che si aspetta un episodio orientato al dancefloor e quello che cerca la ritmica attanagliata, così come anche quello che vuole un accompagnamento perfetto per i suoi voli pindarici. E' il dubbio che genera curiosità, non l'autocompiacimento. Quello, al contrario, genera copie.

Label: La Tempesta International

Voto: ◆◆◆

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